La terza edizione di Mind the gap, dal titolo Ricalcolo. Di territori computanti e dei loro attuatori analogici, rientra nel progetto d’arte contemporanea nato dalla collaborazione con il Parco Basaglia di Gorizia. Si tratta di una mostra collettiva incentrata sui temi delle infrastrutture tecnologiche, del rapporto degli individui con la tecnologia, della rappresentazione virtuale dei paesaggi fisici e dei modelli ideali delle città del futuro, temi che vengono approfonditi e decostruiti attraverso le opere degli artisti Sofia Braga, Emilio Vavarella e del collettivo KairUs, composto da Linda Kronman e Andreas Zingerle.
Il progetto parte dal presupposto che al tempo del digitale è ormai naturale considerare gli spazi virtuali e quelli fisici come profondamente intrecciati. Se fino a qualche anno fa, prima del boom di smartphone e piattaforme online, questi due termini potevano essere usati come concetti opposti, ora sono aspetti complementari di una stessa definizione di reale. Prodotti, strumenti, servizi o eventi che nascono su Internet hanno infatti conseguenze assolutamente reali nel mondo fisico, basti pensare ad esempio alle numerose applicazioni per smartphone che permettono di controllare l’accensione di lampadine o impianti di riscaldamento da qualsiasi località l’utente si trovi, oppure ai vari Assistenti Vocali Intelligenti che possono autonomamente fare la spesa quotidiana attraverso un semplice ordine vocale. Non è necessario addentrarsi nei dettagli della tecnica per poter quindi sostenere che nell’ultima decina d’anni l’immaginario quotidiano – e questo soprattutto nei paesi industrializzati occidentali – si è riempito di attori non umani e immateriali che progressivamente hanno iniziato a compiere in autonomia azioni che fino a quel momento era impensabile fossero delegate a una macchina. E che d’altro canto non necessitavano di Internet per funzionare – si veda nuovamente l’esempio delle applicazioni per controllare la lampadina. Si tratta di un immaginario collettivo spesso costruito su metafore visive o linguistiche che si presentano tendenzialmente fluide, magiche, intuitive ed esperienziali, spesso facendo riferimento a un sistema di elementi molto stilizzati provenienti da un non ben definito mondo naturale: ad esempio acqua, fuoco, e aria diventano rispettivamente la Cloud, il firewall, l’Airdrop, la cui funzione è di mediare e facilitare la nostra relazione con il mondo. Allo stesso tempo, però, le interfacce si occupano anche di nascondere alla vista l’effettivo funzionamento dei macchinari che permettono a tutta questa infrastruttura di connettersi con la fisicità del reale, la quale è spesso molto meno “smart” di come ci venga dato a vedere.
Il progetto espositivo Ricalcolo. Di territori computanti e dei loro attuatori analogici nasce da queste premesse e le estende attraverso l’osservazione di come l’incontro tra digitale e fisico avvenga concretamente nei punti di contatto tra queste due nature del reale. Sono i pochi centimetri quadrati dei sensori ed attuatori elettromeccanici e gli schermi dei device a rendere possibile questo scambio e la trasformazione di un impulso analogico in uno digitale e viceversa.
Ed è qui che la superficie high res si scontra con la realtà low tech. Come spesso espresso negli ambienti dell’attivismo digitale, infatti, queste tecnologie non sono mai neutrali come vengono spesso descritte: i sensori trasformano la complessità del reale in una stringa di numeri e sono i primi responsabili della sua quantizzazione e interpretazione, mentre le interfacce ne influenzano l’impressione di veridicità della sua rappresentazione. Se un’interfaccia è poco amichevole o intuitiva, l’utente considererà tendenzialmente anche i processi sottostanti come poco affidabili. Al contrario – e questo è ciò che la mostra vuole mettere in evidenza – se l’interfaccia si presenta come molto affidabile, automaticamente l’intero prodotto o servizio digitale ne trarrà beneficio. E infatti molte applicazioni raggiungono un certo successo commerciale proprio grazie alle strategie di marketing e allo User Experience Design impiegati nella realizzazione del prodotto, piuttosto che a una sua effettiva superiorità tecnica nei confronti dei progetti concorrenti.
Accomunati da un certo scetticismo verso la perfezione della tecnica, i lavori di Sofia Braga, Emilio Vavarella e KairUs portano in superficie ciò che succede immediatamente al di sotto delle interfacce lucide delle tecnologie contemporanee. Gli artisti utilizzano strumenti e tecniche di diversi campi di ricerca estetica e sociale, da quelli dell’attivismo tecnologico a pratiche documentarie e archivistiche di materiali digitali disponibili online. Con i propri lavori, mettono in luce le estetiche, le retoriche e le contraddizioni tra i mondi smart e dumb, cercando di smontare e affrontare criticamente le illusioni e le false speranze della tecnologia contemporanea: la perfezione del digitale, l’astrazione dello schermo e quel beckettiano entusiasmo per un futuro migliore – magnifico e tecnologico – che probabilmente non si realizzerà mai, ma la cui sola virtualità dà forza al marketing digitale e alla dipendenza internettiana.
Il lavoro di Sofia Braga nasce nel contesto dei social network, all’interno dei quali qualsiasi tipo di contributo personale diventa un materiale di valore per la comunità o per l’azienda che ne controlla gli strumenti. Ogni post, swipe, share o like è parte integrante di una struttura algo-ritmica fondata sull’engagement – la capacità di creare un legame emozionale tra utente e piattaforma – che focalizza l’attenzione dell’utente sull’interazione stessa, creando un circolo autoreferenziale che respinge al di fuori tutto ciò che non ne è parte integrante. In questo circolo, l’utente e i suoi dati personali sono rispettivamente il motore e la batteria della piattaforma: i dati vengono raccolti attraverso un vero e proprio processo di estrazione fondato sull’interazione, il cui vortice di stimoli digitali rallenta solo quando la batteria del proprio device comincia a scaricarsi. In tale situazione, infatti, le dinamiche dell’economia dell’attenzione e la nostra dipendenza si rendono visibili, quasi offrendo il momento per sovvertirne il funzionamento. Che fare? La risposta dell’artista è ironica: basta rilassarsi scrollando e aspettare che la batteria dello smartphone si ricarichi, cullandosi tra le dolci onde della “bacheca infinita”.
Un lavoro collaborativo tipico delle comunità digitali è al centro della ricerca di Emilio Vavarella sul popolare servizio di mappatura Google Street View, una piattaforma che trasforma incessantemente miliardi di nuove immagini panoramiche scattate da collaboratori volontari in una rappresentazione virtuale della superficie terrestre. In un processo di esplorazione del servizio digitale, Vavarella ne ha collezionato i glitch – gli errori digitali che derivano dagli algoritmi utilizzati nella fase di creazione della mappa virtuale – creando un archivio in costante crescita. Al suo interno non ci sono solamente rappresentazioni distorte o mal generate, ma anche immagini che svelano elementi normalmente nascosti all’utente finale, come ad esempio le effettive tecnologie usate nella produzione stessa della mappa o l’identità degli anonimi cartografi. Oltre a essere testimonianza dell’imprecisione del sistema e della sua costruzione, l’archivio tematizza anche i processi di ri-scrizione in atto nella piattaforma stessa. In Street View i glitch individuati vengono poi costantemente corretti e nascosti grazie al contributo volontario degli stessi utenti, i quali sono di nuovo ingaggiati anche nel processo di perenne perfezionamento di un apparato digitale che spesso bluffa sulla propria effettiva perfezione.
Anche il collettivo KairUs, formato da Linda Kronman e Andreas Zingerle, lavora sullo scarto tra la retorica del marketing e l’effettiva costruzione e produzione del mondo smart. Nelle proprie opere KairUs decostruisce il linguaggio entusiasta della comunicazione d’azienda per svelare ad esempio come comuni sistemi di videosorveglianza digitale – promossi come tecnologie per la sicurezza degli individui – possono essere utilizzati in un modo completamente diverso, mettendo a disposizione di chiunque i materiali video registrati in ambienti privati. Nella recente ricerca sulle smart cities, il duo mostra come i piani urbanistici delle città intelligenti del futuro sono fondati principalmente sugli artifici retorici e ideologici delle grandi aziende del digitale, che contribuiscono e attingono all’immaginario collettivo della vita smart per sviluppare e vendere i propri progetti di business futuristico. Tali progetti hanno in comune la visione di costruire una città intelligente che non ha più bisogno degli uomini per la gestione effettiva dell’infrastruttura urbana. Nonostante le roboanti premesse, questi grandi esperimenti di città “aziendalizzate”, ovvero prodotte e gestite da aziende, si rivelano per la maggior parte fallimentari nel momento in cui cominciano ad essere realizzati, specialmente per la frequenza dei guasti all’infrastruttura progettata per funzionare molto più a lungo. Tutto ciò porta rapidamente al paradosso per cui la tecnologia ha nuovamente bisogno di lavoratori umani per risolvere mansioni che idealmente avrebbero dovuto essere svolte da macchine, ma che infine sarebbe troppo costoso o inefficiente risolvere con esse.
È probabilmente questa la contraddizione più interessante delle tecnologie contemporanee: esse si presentano come talmente perfette da essere “autonome” e non dover più confrontarsi con l’imperfezione degli uomini. Allo stesso tempo, per funzionare, necessitano proprio dell’intervento umano per tenere insieme quest’illusione smart di efficienza e perfezione. E questo bipolarismo è nascosto dalle interfacce smart, perfette e infallibili, quasi aliene, che regolano l’interazione del digitale con il fisico e che allo stesso tempo nascondono la propria finitezza attraverso strategie di suggestione visiva, retorica e marketing. In realtà c’è bisogno di un continuo lavorio nel backstage per tappare i buchi e le imprecisioni tra il fondale fisico e la superficie digitale, un ruolo fondamentale e allo stesso invisibile all’interno delle piattaforme. Si tratta di un lavoro spesso “analogico”, ripetitivo, in cui dati e realtà vengono riallineati e fatti quadrare da invisibili contributori anonimi.
Attraverso i progetti esposti, la mostra tematizza la natura estrattiva della tecnologia contemporanea e in generale la pervasiva retorica della vita smart, cioè la tendenza a costruire macchinari il cui funzionamento è fondato sullo sfruttamento di risorse materiali o immateriali per il beneficio economico di pochi e le dinamiche retoriche costruite per convincerci a lasciare spazio di azione al crescente apparato di sorveglianza digitale in cambio dei comodi benefici dell’agire wireless. Quello che viene qui proposto è la visione di un mondo composto non solo da tecnologie perfette e infallibili, ma della loro realtà fatta di 404, di errori di pianificazione e di grandi progetti digitali che si infrangono contro la semplice complessità del reale analogico, fisico. Un’accettazione di questo dualismo e di questa imperfettibilità, forse, potrebbe essere un primo passo per ri-bilanciare la relazione tra uomo, ambiente e tecnologia verso dei modelli economici e tecnici che siano più tolleranti verso le risorse del pianeta e di tutti i suoi cittadini.
Davide Bevilacqua